sabato 20 novembre 2010

il cane nero

qualche tempo fa un ragazzo e un cane mi hanno ispirato la storia del compito finale del corso per essere creativi.
ecco qui di seguito la mia creatura. i vostri commenti (soprattutto se positivi) sono graditi.

Mentre leggevo il giornale e giocherellavo con il manico della tazza, ma non bevevo il cappuccino perché l’odore di caffè e inchiostro mi dava un po’ la nausea, nel frattempo pensavo che forse mi sarei dovuta preoccupare di questa cosa di non riuscire a mangiare perché l'odore del cibo mi fa stare male.
In quel preciso momento, mentre pensavo tutte queste cose, ho sollevato gli occhi come rispondendo a un richiamo e sapevo già da che parte guardare.

L’ho visto attraversare il parco venendo verso di me, con il cane nero incollato dietro. Avanzavano con lo stesso passo, con la stessa stanchezza. L’ho guardato sprofondare nella panchina verde giardinetto polveroso qui davanti, proprio sotto l’albero alla destra del chiosco, e guardarsi intorno, corrucciato, con la barba lunga e le scarpe grigie di terra e di polvere. E l’ho spiato mentre lottava per tenere gli occhi aperti, perché fossero ancora vigili, passandosi le mani sul viso come per togliersi di dosso chili di fatica. Ho osservato come indicava al cane il punto esatto in cui accucciarsi e come poi ha sciolto le gambe distendendole, abbassato le spalle, infilato le mani nella tasca della felpa, appoggiato la testa all’indietro e chiuso gli occhi. E ho notato il suo viso contrarsi in uno spasmo di dolore prima di distendersi.
E allora mi sono chiesta, come se le domande fossero state scritte sulla pagina del giornale che avevo appena posato davanti a me:

“Chi sei? Da dove vieni? Quanto tempo è che non dormi? Da quanto tempo cammini e non ti fermi? Potrei fare qualcosa per te? Potrei aiutarti?”.

Ora, se io fossi il personaggio di un libro o di un film, o semplicemente se non fossi me stessa, adesso mi alzerei da questo angolino confortevole e riscaldato dal sole, andrei a sedermi accanto a lui su quella panchina. Anzi, non solo andrei lì a sedermi accanto a lui, ma accarezzerei i suoi occhi stanchi e poi lo abbraccerei. Perché quello che ho sentito prima, quando mi ha costretto ad alzare la testa, era la sua richiesta di aiuto, il bisogno di qualcuno che gli facesse compagnia anche solo per un po'. E resterei con lui, così potrebbe dormire in pace.
Oppure, se fossimo in un altro film, semplicemente andrei lì e gli chiederei di raccontarmi:
“Cosa ti è successo? – gli direi – Da cosa scappi? Chi ti ha fatto cosa? E adesso dove vai?”.
E poi gli offrirei un caffè, un panino, una birra. E lui avrebbe una storia incredibile da raccontare: guerre, amori, odi, amici, spade, draghi e cavalieri. Oppure invece non direbbe nulla, ma comunque alla fine avrebbe gli occhi sorridenti e alzandosi mi farebbe un inchino di saluto e mi direbbe:
“È stato un piacere conoscerti”.
E chiamerebbe il cane nero con un fischio e se ne andrebbe con il cappuccio in testa, le spalle curve e il cane alle calcagna.
Ed in entrambi casi, avrebbe fatto di me una persona migliore.
Ma questo non è un film né un libro ed io ho troppe cose da perdere. Ho degli appuntamenti a cui andare, degli orari da rispettare, non posso fermarmi a parlare con uno sconosciuto. Anche se non riesco a smettere di guardarlo e non so cosa darei per mandare tutto al diavolo e restare qui con lui.
E quindi rimango qui, seduta a questo tavolino di un caffè all'aperto, con il sole che mi scalda le spalle in questa mattina di aprile a novembre, stanca fino nei miei capelli raccolti e nel mio filo di perle. E, mentre dovrei solo ingannare il tempo prima del prossimo appuntamento di lavoro, inspiro per respirare l’aria che uno sconosciuto sta respirando e mi brucio gli occhi a furia di fissare i contorni del suo viso.
“Non ci vorrebbe niente – mi dico – Sul serio, basterebbe così poco”.
Ma no, non posso farlo. Non posso muovermi da qui.
“Perché non so chi è né da dove viene” rispondo a me stessa.
E anche se non lo dico, anche se non lo penso nemmeno, ho paura di lui.
I minuti passano e io dovrei andare e invece rimango qui; controllo continuamente l'ora e guardo con odio il telefono che ogni tanto vibra nella borsa aperta sulla sedia accanto alla mia. Non leggo nessuno dei messaggi e delle e-mail che continuano ad arrivare come sempre e come se niente fosse.
Ma dopo dieci lunghissimi minuti alla fine mi arrendo, smetto di fantasticare e comincio a radunare le mie cose: è ora di andare.
Mentre cerco il portafogli nella borsa con una mano sola e l'unico rumore che sento è quello delle maglie rigide del bracciale che tintinnano, il mio sconosciuto improvvisamente si riscuote. Si tira su, mi guarda e mi sorride; fa un fischio al cane che si alza in piedi e si sveglia scuotendosi tutto dalla punta delle orecchie a quella della coda, e si allontana dandomi le spalle.

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